Non posso non iniziare con una premessa: questa dirigenza è artefice del più lungo ciclo di vittorie della storia non solo della Juventus, ma del calcio italiano. Si parte perciò da qui, da un capolavoro di lungimiranza e dai 18 trofei conquistati durante la presidenza Andrea Agnelli. Da tifoso, sono estremamente riconoscente per quanto fatto. In questa analisi, però, partendo dalla straordinarietà dell’impresa compiuta, proverò ad analizzare anche le cose che a mio avviso non hanno funzionato al meglio, con lo scopo non di screditare o togliere valore a quanto realizzato, che resta scolpito nel marmo, ma di porre una base per una discussione critica sul nostro futuro.
Dopo nove Scudetti consecutivi e una storia finita male (lato rapporti umani) con Sarri, la Juve quest’anno ha iniziato un percorso di rinnovamento che recentemente John Elkann ha approvato riconoscendone sia le difficoltà, ma anche la necessità di continuare a puntare sui giovani. Ci torneremo alla fine dell’analisi (spoiler: sono d’accordo), ma vediamo prima di capire per gradi come e perché si sia arrivati alla situazione attuale.
Innanzitutto, partirei da una domanda: è davvero quest’estate lo spartiacque tecnico tra il vecchio e il nuovo ciclo? Per me no.
ALLA RICERCA DI UN CALCIO DIVERSO – Lo abbiamo scritto spesso, ma ripeterlo non può che fare bene: non esiste un solo modo per vincere, una sola idea di calcio possibile, una formula magica, un modello da copiare. Esistono le idee trasmesse ed eseguite bene o male, ed esistono calciatori in grado di trasferire sul campo da gioco queste idee in maniera efficace o meno. Chi è “allegrista”, può tranquillamente difendere un modo di intendere il calcio (o anche proprio una filosofia) che ha portato a risultati grandiosi. Chi è sostenitore di un calcio cosiddetto “contemporaneo”, pure. Potremmo stare a discutere per ore. Poi però, per la Juve, decide la Società.
Questa dirigenza, nelle persone di Nedved e Paratici, una scelta l’ha effettuata, netta: ha deciso di voltare pagina e cercare di continuare a vincere inseguendo un’idea di calcio diversa. L’amico Guido Vaciago lo definisce “effetto choc”: dopo aver raggiunto probabilmente il massimo raggiungibile in termini di risultati (è mancata “la Puttana”, ahinoi), per continuare a vincere, il duo bianconero ha pensato fosse necessario cambiare. Hanno lasciato prima che fosse Allegri a provarci (ricorderete tutti il tentativo di “Juve di Manchester”), anche grazie agli acquisti di palleggiatori come Bonucci e Cancelo (oltre che all’acquisto del Re Ronaldo). Come sappiamo, però, Allegri questa rivoluzione non solo non l’ha completata, ma non se n’è mai nemmeno innamorato per diverse ragioni.
Si è passati così, nonostante lo Scudetto vinto, alla guida tecnica di Maurizio Sarri, uno che non serviva convincere poiché già convinto dell’importanza di giocare un calcio più propositivo. Sarri però, dopo aver riscontrato (per colpe anche sue) diversi problemi con lo spogliatoio, ha ben presto abdicato, anche lui, cercando un “compromesso” che gli permettesse (probabilmente sapeva già che non l’avrebbero confermato, e non credo neanche lo volesse più di tanto lui) di portare a casa la cosa più importante: lo Scudetto. Il trofeo che lo avrebbe consegnato definitivamente alla storia come “vincente” e non più solo come “bello da vedere”.
Messo da parte anche Sarri, siamo giunti a Pirlo. La scelta però io la vedo in continuità con questa idea di calcio e con i tentativi fatti finora di cambiare il “DNA” (direbbe qualcuno) della Juve. Si è deciso, con Pirlo, di puntare su un uomo che certamente non avrebbe avuto problemi di spogliatoio o di relazioni personali con Andrea Agnelli (i due sono amici, come sappiamo), ma che avesse a sua volta idee di calcio “contemporanee”, ispirate ad un calcio di posizione “guardiolesco” e al recupero immediato del pallone. È ancora presto per giudicarlo come allenatore, anche se mi sono già espresso su alcune perplessità, ma era utile, a mio avviso, inquadrare bene la volontà precisa delle dirigenza anche per poterne valutare più correttamente i risultati.
Già, i risultati. Non benissimo, dal quarto anno di Allegri in poi. Il quinto, infatti, per la prima volta, la Juventus è stata eliminata in Champions League da una squadra sulla carta inferiore (anche se oggi possiamo un po’ rivalutarla visto la presenza di campioni come de Ligt e de Jong, fra gli altri). Ronaldo, inoltre, la punta di diamante di quel progetto tecnico, ha segnato “appena” (tra virgolette) 21 gol in Campionato, lui che 16-17 gol li segnava solamente in un’edizione della Champions, a Madrid. Ed ha finito, soprattutto, per criticare con inequivocabili gesti l’atteggiamento “sparagnino” della squadra chiedendo a gran voce che si attaccasse di più e con più “grinta”, specie in Europa.
Anche questo ha portato al cambio tecnico, ma con Sarri le cose sono migliorate solo parzialmente. Sconfitta in Supercoppa, sconfitta in finale di Coppa Italia, Ronaldo a 31 gol in Campionato ma ancora una volta un’eliminazione, seppur a 2 mesi di distanza dall’andata e seppur vincendo il ritorno, contro una formazione inferiore come il Lione. La squadra poi, come abbiamo appreso, si è sfasciata poiché evidentemente non ancora pronta al cambiamento (o quantomeno a cambiare con Sarri). Quest’anno, infine, l’eliminazione è arrivata, sempre agli ottavi, contro un Porto per gran parte del ritorno in inferiorità numerica e con un Ronaldo “europeo” che ha chiuso con un gol su azione al Ferencváros e uno alla Dinamo Kiev, troppo poco per lui e troppo poco per noi.
Giudicando solo i risultati ottenuti, si potrebbe pensare che la scelta di cambiamento intrapresa dalla dirigenza sia stata un errore. Non so dirvi se lo sia stata o meno, ma a mio avviso un’analisi approfondita e costruttiva dovrebbe valutare anche altre motivazioni. Scarichiamo la colpa tutta sugli allenatori senza guardarci allo specchio?
LE PLUSVALENZE A DOPPIO TAGLIO – Proviamo a non farlo. Partirei allora da un assunto, da un mio pensiero che penso possiate condividere: la qualità degli 11 della Juventus è progressivamente calata dalla finale di Berlino in poi. Dai vari Buffon, Bonucci, Chiellini, Barzagli, Marchisio, Vidal, Pirlo, Pogba, Tevez, il giovane Coman, il primo Morata eccetera si è passati all’anno scorso dove ci siamo trascinati un Higuain con la panza e un Matuidi in pre-pensionamento (saluti dagli States), un Pjanic ormai finito (spiace tanto), un Khedira da 31 gare saltate per infortunio e un Douglas Costa da 17, ceduti (regalati) entrambi così come giovani di prospettiva (che quest’anno stanno facendo un campionato super) come Kean, Cancelo e Spinazzola, sacrificati per questioni di bilancio.
La domanda è: perché? Perché siamo arrivati ad un impoverimento tecnico tale da dover quasi rifondare la squadra quest’estate con innesti di diversi giovani (e altri ne serviranno) per riequilibrare una rosa con l’età media vicina ai 30 anni?
Risposta: perché ci siamo ingolfati.
Lo sapete, è un mio vecchio cavallo di battaglia e le mie grida di dolore le avrete probabilmente lette già nei vari social o ascoltate in qualche podcast. Ero convinto che si stesse andando in una direzione insostenibile come costi e come gestione della rosa e, purtroppo, siamo finiti dritti nelle sabbie mobili che tanto temevo. Ben prima di Ronaldo.
Questo sistema delle plusvalenze usate per pareggiare i bilanci, in maniera così aggressiva, ha funzionato infatti per un po’, quando avevamo ancora parecchi giovani in giro per la Serie A da piazzare (eredità del “metodo Marotta”, che li collezionava per usarli in scambi o per monetizzarli), ma è diventato via via sempre più difficile portandoci a sacrificare anche giovani che non avremmo voluto cedere, o a far finire sul mercato gente che magari con meno necessità di fare plusvalenze feroci non avremmo messo sul mercato.
Già perché c’è un effetto collaterale, sulle plusvalenze, che continuo a vedere poco percepito.
Usiamo l’operazione Pogba-Higuain come esempio di scuola. Come ricorderete, nell’estate nel 2016, la Juventus cedette Paul Pogba al Manchester United a fronte di un corrispettivo di 105 milioni di euro (+ 5 di bonus) che generarono un effetto positivo (plusvalenza) di 72,6 milioni di euro (perché una quota di quei 105 milioni, ovvero poco più di 26, finì nelle tasche del procuratore Mino Raiola). La Juventus poi decise di reinvestire quei soldi per acquistare Gonzalo Higuaìn dal Napoli per 90 milioni di euro, ai quali si aggiunsero 3 milioni di euro di commissione al procuratore.
“Quasi pari e patta”, leggo ogni volta che si commenta un’operazione del genere. E invece no! Bisogna ragionare in base ai costi annui a bilancio dei due giocatori. Il francese pesava a bilancio poco più di una decina di milioni di euro (1,5 di ammortamento annuale e 9 circa di ingaggio), mentre Higuain è arrivato a costare tra ammortamento (18 circa) e ingaggio (15 circa) oltre 33 milioni di euro per 4 anni di fila. In pratica, al di là del cash sborsato e delle plus, il costo annuo da sostenere da parte della Juventus è passato dai 10 di Pogba ai 33 milioni di Higuain, triplicandosi. Altro che “quasi pari e patta”…
Sta proprio qui la fregatura delle plusvalenza: le “sfrutti” un anno, il primo, ma poi – esauritosi l’effetto – ciò che ti resta dal bilancio successivo sono i costi annui (ammortamento + ingaggio) che finiscono per pesare (di più) e a costringerti o ad accrescere i ricavi per sostenere l’aumento, o a tagliare le spese altrove, o a cercare nuove plusvalenze in un circolo pericolosamente vizioso.
Volete vedere cosa succede altrimenti? Vi mostro questo grafico preparato con i dati di Massimo Maccarrone. Nel 2017, l’anno in cui abbiamo caricato la plusvalenza mostruosa di Pogba (in giallo), il bilancio è ovviamente immediatamente schizzato verso l’alto e la Juve ha chiuso quell’anno con un risultato d’esercizio (in verde) positivo di 42,6 milioni. Lo possiamo chiamare l’effetto n.1 delle plusvalenze. L’anno successivo, però, quando non sei riuscito a replicare tale performance col player trading, il bilancio è crollato essendosi esaurito l’effetto “polvere sotto il tappeto” delle plus (effetto n.2).
MODELLO DORTMUND O REAL? – Man mano è diventato infatti sempre più difficile fare plusvalenze “pulite” (senza scambi ipervalutati) poiché si sono esauriti i calciatori giovani da piazzare e ti sono rimasti giocatori vecchi, invendibili o rotti. La banalizzo per capirci, ma il concetto è questo: se vuoi campare di player trading (e il bilancio quello impone, a prescindere dalla volontà), devi essere più Borussia Dortmund e meno Real Madrid wannabe. Devi investire sui giovani per poi poterli rivendere e fare plusvalenze molto alte e non puntare solamente su giocatori fatti e finiti, magari esperti ma invendibili. Altrimenti, la coperta diventa corta. Quando hai fatto scambi di plusvalenze ipervalutate, infatti, hai aumentato anche i costi annui (possiamo usare l’esempio Pjanic-Arthur per capirci, o quello Cancelo-Danilo) facendoli schizzare alle stelle dal secondo anno.
In numeri? Hai aumentato il costo del personale sempre di più. Dai 236 milioni circa del 2015, sei arrivato ai 452 circa del 2020. Ma, lo abbiamo detto in premessa, la qualità complessiva delle rosa è diminuita di pari passo, non è aumentata. E il tuo bilancio è passato da un utile di 2 milioni del 2015 ad una perdita di 89 nel 2020 e che si prospetta quasi doppia nel 2021.
Non benissimo, già.
Altro aspetto, questa volta più tecnico: non basta solo comprarli, i giocatori giovani. Devi anche creare un giusto contesto tecnico per poterli valorizzare. I Coman, i Cancelo, i Can, i Demiral, i Kulusevski devi fare in modo che aumentino esponenzialmente la loro quotazione di mercato (e qualcuno devi venderlo, te lo impongono i conti) ed è compito dell’allenatore lavorarci. Sotto la guida Allegri, non siamo riusciti a farlo (perché puntavamo a vincere subito e perché i giocatori formati dal tecnico livornese poco si adattavano al calcio che si gioca in Europa, con quindi poche squadre che hanno bussato alla porta). Sarri sarebbe potuto essere un allenatore perfetto da questo punto di vista (basti vedere le valutazioni che hanno raggiunto con lui i giocatori del Napoli), ma come detto incompatibilità caratteriali e personali hanno arenato sul nascere tale progetto facendo perdere un anno. Si spera Pirlo sia in grado di creare a sua volta un’identità di gioco nella quale far crescere i veterani e inserire i giovani. L’idea è quella, quantomeno.
L’EFFETTO RONALDO – Veniamo all’elefante nella stanza, l’argomento del momento: la firma di Cristiano Ronaldo, inserita in quel contesto in cui già ci trovavamo, come detto, a rincorrere le plusvalenze. Follia? Programmazione?
Proviamo a usare i numeri e, di nuovo, ci viene in soccorso un grafico contenente i dati di Massimo. Dal 2012 al 2018 c’è stata una crescita costante dei costi del personale (sono costi complessivi prima squadra, U23 e Women), in rosso, ma anche del fatturato, in verde.
Osservate invece cosa è successo nel 2019 (primo anno di Ronaldo) e nel 2020 (primo in cui si è sentito parzialmente l’effetto Covid). C’è stata un’esplosione dei costi (in quelli del 2020 mancano pure delle mensilità cui i giocatori hanno rinunciato o sarebbero ancora superiori), ma – dobbiamo essere onesti – il fatturato non è cresciuto quanto ci si aspettasse. A fronte di un aumento di 61 milioni, c’è stato un aumento del costo personale di 109.
Certo, mi direte voi: siamo stati penalizzati dal Covid. Chiaro, il bilancio scorso (2020) e il prossimo saranno influenzati inevitabilmente dallo stadio chiuso e dai mancati introiti della biglietteria. Ma non solo. Le minori entrate sono dovute anche a risultati in Champions non esaltanti (secondo anno di fila usciti agli ottavi), ad un marketing che non decolla, ma anche da accordi commerciali rinnovati con aumento sì, ma che finora non ha permesso al club di Andrea Agnelli di raggiungere i top team europei.
Posso criticare il presidente per aver avuto questa ambizione? No. Non lo farò mai. Cosa è mancato per rendere sostenibili i costi schizzati così alle stelle? Probabilmente una Champions League, il primo anno di Ronaldo soprattutto, che avrebbe permesso ancora di più di migliorare l’immagine (a proposito: il portoghese ha fatto un lavoro pazzesco per far accrescere il nostro brand, e questa è una grande “vittoria” nostra) e attrarre altri sponsor. Risultati sportivi e marketing vanno spesso di pari passo e, proprio per questo, i “cattivi” risultati sul campo (ci sono le virgolette: rispetto alle aspettative di aumento appeal), hanno frenato tantissimo. Il Portoghese è infatti un grandissimo catalizzatore di attenzione, sia nel bene, ma anche nel male (una sconfitta, con lui, diventa immediatamente letta come un fallimento).
La diagnosi, ad ogni modo, al momento è piuttosto chiara: il fatturato 2020 senza plusvalenze della Juventus (401 mln) è più vicino a quello del Borussia Dortmund (370 mln), per tornare all’esempio di prima, che a quello del Real Madrid (714 mln). E il bilancio, come detto, è sempre più in rosso. Su questo una riflessione andrebbe fatta.
LA STRADA VIRTUOSA – Come se ne esce, quindi? Due possibilità. La prima, dagli effetti immediati, è salutare Ronaldo. Abbatteremmo il costo annuo (certo, poi lo devi sostituire tecnicamente e auguri) di una novantina di milioni di euro e risolveremmo quasi istantaneamente la questione, a monte. La seconda possibilità, forse sportivamente più intrigante, prevede invece l’abbattimento progressivo ma deciso del costo personale investendo sempre di più sui giovani e sull’Under 23. Torniamo quindi, come vedete, alle parole di John Elkann.
Il primo semestre del 2021 ha già fatto registrare una diminuzione di 17 milioni di euro di retribuzioni. Spendiamo inoltre 12 milioni di euro per pagare giocatori dati in prestito (che prima o poi scadranno) e ne abbiamo spesi 7 per incentivarne altri all’esodo (buonuscita), oltre ad aver pagato lo stipendio di Sarri e staff, che a giugno saluteremo anche contrattualmente.
Dopo aver alzato tantissimo l’asticella e aver fatto all-in per bruciare le tappe e vincere il trofeo innominabile mancante (è andata male, è l’unico grande rammarico di questo ciclo), ora la Juve pare aver correttamente cambiato rotta e intrapreso una strada del ridimensionamento dei costi e della valorizzazione dei giovani che, soprattutto in epoca Covid, saranno fondamentali per mettere un freno alle perdite e guardare di nuovo alla sostenibilità. Ho detto ridimensionamento dei costi, non necessariamente tecnico. E sarà proprio questa la sfida, non facile (anzi, lo voglio scrivere più chiaramente: molto difficile), da raccogliere ben consci delle difficoltà cui andiamo incontro (ancora: ritornano le parole di John Elkann), ma – per quanto mi riguarda – con la convinzione che si sia imboccata una strada virtuosa.