La mia riflessione dopo aver osservato l’evoluzione dell’Allegri “mediatico” degli ultimi due anni è che, ad un certo punto, dopo aver conquistato 3 Scudetti di fila ed aver raggiunto due finali di Champions da underdog, abbia iniziato a soffrire la mancanza di riconoscimenti da parte della “critica”. Ogni grande allenatore ha un grande ego, i riconoscimenti fanno piacere a tutti e, non riceverne a sufficienza, avrebbe fatto incazzare anche altri suoi colleghi top.
Si aspettava probabilmente non dico di creare un movimento simile al “Cholismo”, o al “Guardiolismo“, nè di poter guardare dall’alto al basso lo Zidane fresco vincitore della sua prima Coppa. Ma Sarri sì. Ma gli altri allenatori italiani sì.
Si è ritrovato invece a lottare contro un Napoli irreale, da 90+ punti, un unicum nella storia e per di più con l’alfiere del belgiuochismo new age che – dopo aver vinto a Torino – era arrivato ad un gol di Higuain all’89° dal tirargli uno scherzo epocale. Il tutto mentre comunque la Juve usciva col Real Madrid ai quarti di Champions League tra le polemiche e si apprestava a vincere un’altra Coppa Italia, la quarta di fila.
Umanamente, si può comprendere. Anche calcisticamente, l’ho difeso fino all’anno scorso. Quella che è meno comprensibile è invece la posizione che da allora ha iniziato ad assumere sempre di più, in un crescendo rossiniano, trasformandosi – probabilmente per contrasto – in un “talebano” a sua volta.
Non è vero che il belgiuochismo (ma che vuol dire?) sia l’unico modo per vincere come sostengono alcuni giornalisti, o che conti di più portare a casa 3 punti in un modo piuttosto che in un altro. Non è vero nemmeno il suo contrario. Non è vero che in Italia alla Juve si possa vincere solo cambiando la mentalità difensiva del club (che qualcuno definisce “il dna”) o con una filosofia calcistica più offensiva, ma nemmeno che lo si possa fare solo con questa difesa posizionale bassa e con gli 1-0. Stessa cosa in Europa. Non ha alcun senso citare le finali europee degli ultimi 6 anni di Guardiola, nè il fatto che in semifinale siano arrivate squadre propositive come Tottenham, Ajax e Barcellona. Non serve nemmeno fare riflessioni sul Barca “attendista”. Non c’è alcuna lezione da cogliere. Non c’è alcuna verità universale, nessuna ricetta vincente da usare in qualsiasi contesto e per sempre. Nel calcio tutto cambia e tutto è giusto finchè/se funziona. Qualsiasi approccio è buono, se ti porta a giocare bene e a sfruttare bene la rosa. E quindi a raggiungere gli obiettivi prefissati.
L’Allegri di questa stagione si è trasformato sempre di più da un “difensore” del proprio lavoro (e ci sta, è il suo lavoro!) ad “attaccante” del lavoro e del pensiero altrui (e ci sta meno). Si è irrigidito anche dialetticamente su un modo di comunicare il calcio come un qualcosa di “semplice”. Ci ha scritto persino un libro. C’è una pagina in particolare dove commenta un Parma-Juve 3-3 usando queste parole: “Ci facemmo infilzare due volte proprio per un’eccessiva ricerca del bel gioco”. E ancora: “Penso che accontentammo inconsciamente tutti quelli che volevano vedere il bel gioco, che però alla fine non paga”.
Questo non è più un difendere il proprio lavoro, ma far passare un concetto “tossico” per cui col bel gioco si perda a prescindere, punto. Per cui col bel gioco ne prendi 2, mentre giocando un gioco brutto no. Non è vero: ne prendi 2 se sbagli qualcosa; vinci se fai bene qualcosa. Quel “cosa”, è a discrezione dell’allenatore, che può avere idee anche diverse dalle tue ma essere ugualmente efficace, ed è sull’efficacia e non sui “gusti” che andrebbe giudicato.
Quando Allegri dice: “Se voglio giocar bene non c’è problema: metto i terzini che fanno le ali, i centrocampisti tutti di qualità, però poi dopo quando si traccia la riga come sei arrivato? Secondo? Terzo?” anche in quel caso fa passare un concetto che per me è scorretto, ovvero che sia impossibile vincere proponendo un calcio diverso dal suo (o anche solo che il secondo posto di Sarri non sia un’impresa sportiva altrettanto meritevole di elogi, per tornare a due anni fa). C’è una linea sottile tra il difendere le proprie scelte e il denigrare le altre e lui ormai lo varca con costanza.
È a causa di questa escalation, culminata poi con la guerra ai “teorici” del calcio contrapposti ai “pratici” (come lui) e continuata ieri con i discorsi sul “dna” dei club con annesse critiche ai colleghi italiani (ma quali?) che “scimmiottano il Barcellona” o che vogliono fare “gli stranieri a tutti i costi” che non lo seguo più. Perchè ha iniziato una crociata personale inutile, eccessiva e a volte parecchio irrispettosa, nei contenuti, esattamente come irrispettose erano alcune critiche che riceve lui da un paio di anni (a dire il vero, ultimamente anche nella forma in alcuni casi). È andato oltre: ha iniziato a volerla spiegare e questo è un sentiero pericoloso da intraprendere perché poi non ne esci.
Se non metti le necessità della squadra e l’analisi degli avversari al centro del tuo calcio, ma lo idealizzi quasi “a sfida”, perdi il focus su quello che sta avvenendo sul prato verde (non solo il tuo, ma quelli di tutta Europa) e ti focalizzi solo su concetti estremizzati da ripetere a cantilena, forte di risultati che comunque ti supportano ancora, ma che potrebbero anche cambiare.
Allegri ha il suo modo di intendere il calcio, va rispettato per questo, andrebbe rispettato se non altro per il suo palmares, ma non c’è controprova in questi discorsi astratti nè da una parte nè dall’altra perchè solo lui allena la Juventus e solo lui ha la rosa più forte d’Italia con la quale è oggettivamente più “semplice” (ma non scontato) vincere. Ci sono i risultati, quelli sì, e spesso analizzarli è il modo migliore per provare a tracciare una sintesi. Non credo al presidente Agnelli importi dello scimmiottamento dei suoi colleghi o di queste dispute ideologiche: gli importerà capire bene le ragioni di un’annata non esaltante, gli errori commessi e le eventuali responsabilità. E, francamente, anche a me.