Ho appena letto la lunga intervista di Tuttosport ad Antonio Conte.
Ho letto anche diversi pareri nel web con la solita forbice da Gesù a Giuda, da salvatore a traditore, da condottiero a mercenario. A mio modo di vedere, senza arrivare a questi eccessi, continua ad uscirne fuori un ritratto molto simile a quello che descrissi a suo tempo nel pezzo “La Juventinità di Conte”, ovvero di un allenatore innamorato del proprio lavoro, ancora Juventinissimo (non è mai stata questione di tifo), carico e sempre fortemente convinto di essere il meglio su piazza. Non è mai cambiato nulla, da quel punto di vista. Semmai, si sono palesati ancora di più altri aspetti che lo hanno portato probabilmente a divenire vittima di se stesso, in primis il suo carattere e il suo integralismo (non tattico).
E’ il classico allenatore, Conte, in grado di cavare il sangue dalle rape spremendo mentalmente e fisicamente anche giocatori non particolarmente conosciuti per le loro qualità mentali (guardare Osvaldo, per un esempio attuale). Non solo è in grado di farlo, ma farlo è per lui necessario ed è l’unico modo che conosce di lavorare e di rapportarsi al lavoro. Si tratta di spingere sempre al massimo il motore finendo inevitabilmente per usurare se stesso e gli altri. Se stesso a causa del suo vivere troppo male anche solo l’idea di una sconfitta (figuriamoci il giudizio), della sua incapacità di gestire le emozioni e le forze e, quindi, di “durare” in contesti stressanti per definizione come quello di un club la cui unica cosa che conta è vincere (con te che sei in cima alla piramide delle responsabilità). Gli altri perché, per motivarli, Conte ricorre spesso all’espediente dello sminuirne costantemente il valore esaltando a dismisura quello degli avversari (l’idea è quella che senza dare il 110% ogni volta, non si è in grado di vincere. Filosoficamente l’opposto della gestione Allegri, da questo punto di vista, più da “Nel caso c’è pronto Romagna che è giovane e bravo, non c’è problema” e “L’importante è restare un punto davanti”). Alla lunga, dopo che hai dimostrato per 3 anni di fila di essere il più forte di tutti a suon di record, può risultare un tantino indigesto, diciamo così.
Insomma si è “eliminato” da solo Conte, per questo modo di allenare e rapportarsi inadatto ai lunghi matrimoni. Si è autodistrutto a poco a poco, fino a doversi “proteggere” con questa scelta ragionata, sofferta ma al tempo stesso inevitabile proprio perché convinto, alla fine, che il gruppo non ne avesse più.
C’era bisogno di cambiare qualcosa: o il gruppo o lui.
Si è arrivati a maggio già con questa convinzione e con un rapporto con la dirigenza logoratosi nel tempo, inevitabile conseguenza del non voler mai fare realmente un sostanziale passo indietro (sia da parte di Conte che della dirigenza bianconera), essendo entrambi fermamente convinti che il proprio “progetto Juve” fosse migliore, anzi l’unico. Una mini-rivoluzione, per Conte, che avrebbe probabilmente previsto anche cessioni importanti (Vidal? Pogba? Pirlo?) ma che si pensava inevitabile avendo quel gruppo già dato tutto; piccoli accorgimenti e innesti freschi tra le seconde linee per Marotta e – quindi – Agnelli, continuando a raccogliere tutto ciò che fosse raccoglibile (perché quando ti ricapita un ciclo così dove puoi razziare tutto in Italia e riscrivere i libri dei record?). Due idee opposte nate da esigenze opposte ed entrambe con lo stesso fine. Ma incompatibili.
(Parentesi: sono ancora dell’idea che gli allenatori debbano fare gli allenatori e oggi, rispetto al primo articolo, ripensare a Iturbe e Cuadrado piuttosto che all’idea che vendendo Pogba si possano prendere 2-3 top player continua a lasciarmi della stessa opinione e credo proprio che approfondirò la questione in un pezzo ad hoc)
E’ questione anche di ego, probabilmente, perché no. Non si è mai realmente cercato un compromesso, se non a parole. Promesse che non sono bastate e che hanno portato ad una delle separazioni più traumatiche della storia del club, ma al tempo stesso senza che la si sia spiegata a fondo. Forse perché, banalmente, era un “Ho ragione io”, “No, ho ragione io”. “Bisogna fare come dico io altrimenti me ne vado”, contrapposto ad un “Ci abbiamo provato ma non è stato possibile” (senza averci veramente provato con tutte le forze, anche perchè lo si riteneva sbagliato).
Ad ogni modo è andata così e tutto ciò che si è detto e fatto dopo continua a non appassionarmi, non trovando alcun vantaggio dal buttare a mare tutto quanto di meraviglioso fatto da noi per una frase detta dopo, da ex. Ci tengo a quel ricordo e, come letto ieri da qualcuno su Facebook, nemmeno Conte riuscirebbe a rovinarmi il ricordo di quegli anni di Conte.
Chiosa finale, ma piuttosto importante.
Personalmente, ho preferito accantonarlo emotivamente. Ieri però, dopo aver dato un’occhiata come tutti ai video anteprima di Tuttosport, mi sono ritrovato a sorridere pure io quando sorrideva lui, contagiato in pieno. E’ ancora “Antonio nostro”, per me. Anche se è andato via. Ma questo lo pensavo anche di Lippi quando andò all’Inter, di Sousa quando lo spedimmo al Dortmund, di Zidane al Real e di Henry quando passò al Barcellona. Sono un inguaribile romantico, per questo faccio ancora il blogger. Ma questo sono io! Si può anche essere più freddi, addirittura incazzati e sentirsi traditi. Si può pure odiarlo, volendo. E’ questione di emozioni e guai a classificarle come giuste o sbagliate e a pensare le proprie siano migliori di quelle degli altri. E’ giusto si sia divisi, non amo i tentativi di convincere gli altri nè di criticarli eccessivamente poichè trovo giusto che ognuno abbia reagito emotivamente in maniera diversa. E’ altrettanto giusto (e conveniente) però, ad un certo punto, andare avanti e pensare a ciò che sarà più che a ciò che è stato. E’ la Juve di Allegri ora ed è a lui che, d’ora in poi, continuerò a dedicare le mie riflessioni. Riaccantonando Conte, non me ne voglia.