Avrete forse letto di sfuggita, nei giornali o su internet, della protesta in atto da parte degli sportivi afroamericani che si inginocchiano durante l’inno nazionale (che negli Stati Uniti viene suonato prima di ogni evento sportivo) o che, addirittura, lo boicottano restando negli spogliatoi. Avrete magari anche sentito dei Golden State Warriors, la franchigia campione NBA, che – invitata alla Casa Bianca come avviene tradizionalmente per tutti i campioni degli sport statunitensi più popolari – si è rifiutata di accettare l’invito (con Trump che, colpito nell’orgoglio, lo ha immediatamente ritirato per “ingratitudine”).
Siccome sono certo che la situazione non sia del tutto chiara, specie in Italia, e siccome credo ci siano un sacco di pregiudizi e disinformazione sull’argomento, credo sia il caso di chiarire alcuni concetti e di discuterne apertamente, perché si tratta di un argomento scomodo e in quanto tale rifiutato a priori da molti. Vi riporto, a tal proposito, le parole di uno straordinario discorso di Gregg Popovich, allenatore dei San Antonio Spurs: un bianco che si rivolge ai bianchi, così. Questo è il motivo per cui, qualunque sia la forma di protesta (tra l’altro civile), sia il caso di parlare del merito, più che della forma.
“Ovviamente l’argomento di cui nessuno vuole parlare è il razzismo, questo lo capiamo tutti. A meno che non se ne parli costantemente, (la situazione) non migliorerà. La gente si stufa. Dice: ‘Oh, di nuovo? La stanno di nuovo buttando sul razzismo? Perché dobbiamo parlarne ancora?’. Beh, perché è scomodo! C’è bisogno che ci sia un elemento scomodo nella discussione affinché qualcosa cambi, che sia il movimento LGBT o il suffragio delle donne, il razzismo, non importa. La gente deve essere scomodata, soprattutto i bianchi, perché siamo comodi. Non abbiamo ancora idea di cosa significhi essere nati bianchi. Ed è difficile accettare che, sì, è come se fossimo sulla linea dei 50 metri in una pista di 100 metri. Abbiamo questo tipo di vantaggio perché siamo nati bianchi. [..] Abbiamo vantaggi che sono sistematicamente, culturalmente e psicologicamente evidenti. E sono stati costruiti e cementati per centinaia di anni. Ma molte persone non riescono a vederli, è troppo difficile. Non può essere qualcosa che è quotidianamente nel proprio piatto. La gente vuole mantenere le proprie posizioni, il proprio status quo, non vuole rinunciarvi. E finché non ci rinuncerà, la situazione non si aggiusterà”.
Parliamone, dunque. Vi propongo una ricostruzione sul quando, come e perchè sia nata la protesta.
Tutto è iniziato nell’agosto del 2016 grazie ad un giocatore di football americano, Colin Kaepernick, allora quarterback dei San Francisco 49ers, il quale prima di una partita di preseason rimase seduto durante l’inno americano come forma di protesta (in seguito decise di inginocchiarsi per mostrare comunque rispetto verso i caduti che hanno combattuto e combattono per rendere l’America un paese libero).
Dopo la partita, spiegò le sue ragioni:
“E’ per lanciare un messaggio e far capire alla gente cosa stia realmente succedendo in questo paese. Ci sono un sacco di ingiustizie e di gente che non paga per queste ingiustizie ed è qualcosa che deve cambiare. Questo paese si batte per la libertà e la giustizia per tutti, e non sta avvenendo per tutti in questo momento. [..] Ci sono situazioni che vanno avanti da anni e anni, e non sono mai state affrontate. [..] Continuerò a restare seduto e a stare dalla parte della gente oppressa. Per me questo è qualcosa che deve cambiare e quando ci saranno dei cambiamenti e sentirò che quella bandiera rappresenterà quello che dovrebbe rappresentare in questo paese per tutti, mi alzerò. Ci sono un sacco di cose che devono cambiare, a iniziare dalla brutalità della polizia. [..] Non me ne starò in piedi mostrando orgoglio per la bandiera di una Nazione che opprime i neri e la gente di colore. Per me, questa cosa è più importante del football e sarebbe egoista guardare dall’altra parte. Ci sono morti nelle strade e gente (i poliziotti) che la fa franca”.
Il riferimento è ad una ripetuta serie di “casi” di poliziotti che, nel corso del proprio lavoro, avevano ammazzato afroamericani, spesso ripresi da una telecamera, e spesso senza che le vittime avessero nemmeno un’arma (o comunque senza che l’avessero impugnata).
Intendiamoci: ci sono casi scandalosi, inaccettabili, disgustosi.
Così come è anche vero che il tasso di criminalità tra gli afroamericani sia elevatissimo e fare il poliziotto in America non sia una cosa semplice avendo spesso a che fare con membri di gang, tossici, o anche solamente gente che, oggettivamente, mette paura per il solo aspetto. Ma l’idea stessa che si possa sparare qualcuno, sbagliando, e non pagare mai non è accettabile, pur con tutte le difficoltà da riconoscere a chi compie un mestiere così difficile.
Torniamo a Kaepernick, per il momento. Donò un milione di dollari a diverse associazioni di volontariato (più altri soldi donati in diversi momenti) e gli stessi 49ers pareggiarono l’offerta del giocatore donando un ulteriore milione di dollari a due associazioni che si occupano di problemi legati al razzismo e alle discriminazioni sociali.
Durante la prima giornata della NFL, altri 11 giocatori si unirono alla sua protesta restando seduti durante l’inno, incluso un giocatore di Denver, Brandon Marshall, che protestò prima dell’inno della partita di punta trasmessa in chiaro e in diretta nazionale dalle televisioni. Alcuni giocatori decisero di restare in piedi, ma alzarono il pugno al cielo in segno di protesta. Diverse squadre, come segno di unità, decisero di stringersi le braccia durante l’inno, mostrandosi compatti e uniti.
La protesta fece parlare molto, ma si trasformò presto in un attacco personale soprattutto contro l’ideatore, Kaepernick, fatto oggetto di minacce di morte e insulti, ma anche di solidarietà e supporto da parte di molti afroamericani.
E’ importante sottolineare come il tutto iniziò quando Donald Trump non era ancora il presidente degli Stati Uniti, e anzi non era nemmeno lontanamente nei pensieri di Kaepernick. C’era ancora Barak Obama, che reagì così alla protesta che nel frattempo prendeva piede e coinvolgeva anche altri giocatori.
“Ci saranno un sacco di persone che faranno cose per le quali non siamo d’accordo, ma finché le fanno rispettando le leggi, possiamo criticarli, ma sarà un loro diritto farlo. Vorrei che il sig. Kaepernick e altri che si inginocchiano ascoltassero il dolore che causano a chi, per esempio, aveva un marito o un figlio ucciso in combattimento. Ma vorrei anche che la gente pensasse al dolore che (Kaepernick) rappresenta per le persone che hanno perso un proprio caro per un motivo che credono sia ingiusto”.
“Il signor Kapernick esercita un proprio diritto garantito dalla Costituzione. Non metto in dubbio la sua sincerità. Credo gli importi di alcuni problemi reali, legittimi, che vanno discussi. Se non altro, ha generato discussioni su argomenti che vanno trattati”.
Trump e la politica non c’entrano inizialmente a maggior ragione se si pensa che quella di Kaepernick è stata solo l’ultima e più clamorosa protesta da parte degli sportivi afroamericani contro le violenze ingiustificate dei poliziotti nei confronti dei neri. Nel dicembre del 2014, infatti, alcuni dei giocatori più importanti della NBA decisero di indossare una maglietta con la scritta “I can’t breathe!” (non riesco a respirare).
Erano le ultime parole pronunciate ripetutamente dal 46enne Eric Garner, afroamericano padre di 6, che immortalato da un video amatoriale veniva strozzato in diretta dalla presa al collo di un poliziotto che non lo mollava nonostante gli evidenti lamenti (Garner verrà portato all’Ospedale dove morirà un’ora dopo).
E anche in questo caso, anche davanti all’evidenza, anche davanti ai video, il poliziotto in questione, Daniel Pantaleo, non venne incriminato per l’accusa di omicidio.
Durante gli ESPYS Awards del luglio 2016, Carmelo Anthony, Chris Paul, Dwayne Wade e LeBron James tennero un discorso incentrato proprio sulla “police brutality”.
ANTHONY: Buona sera. Questa sera è una celebrazione dello sport, si celebrano i nostri traguardi e le nostre vittorie. Ma in questo momento di celebrazione abbiamo chiesto di iniziare lo spettacolo di oggi in questo modo: noi quattro che parliamo ai nostri colleghi con il paese che guarda. Perché non possiamo ignorare le realtà delle cose in America. Gli eventi della settimana scorsa hanno messo in luce l’ingiustizia, la sfiducia e la rabbia che assillano così tanti di noi. Il sistema è rotto. I problemi non sono nuovi. La violenza non è nuova. E le divisioni razziali non sono certamente nuove. Ma l’urgenza di creare il cambiamento è ai massimi livelli di sempre.
PAUL: Davanti a voi, stanotte, accettiamo il nostro ruolo nell’unione delle comunità, per essere il cambiamento che dobbiamo vedere. Siamo davanti a voi come padri, figli, mariti, fratelli, zii e, nel mio caso, come uomo afroamericano e nipote di un agente di polizia, che è una delle centinaia di migliaia di grandi agenti che servono questo paese. Ma Trayvon Martin, Michael Brown, Tamir Rice, Eric Garner, Laquan McDonald, Alton Sterling, Filando Castile: anche questa è la nostra realtà. Generazioni fa, leggende come Jesse Owens, Jackie Robinson, Muhammad Ali, John Carlos e Tommie Smith, Kareem Abdul-Jabbar, Jim Brown, Billie Jean King, Arthur Ashe e tanti altri hanno costituito un modello per ciò che gli atleti dovrebbero rappresentare. Quindi scegliamo di seguire le loro orme.
WADE: La discriminazione razziale deve finire. La mentalità di sparare per uccidere deve finire. Il non riconoscere l’importanze dei morti neri e marroni (latini) deve finire. Ma anche le ritorsioni devono finire. L’infinita violenza delle armi in luoghi come Chicago, Dallas, per non parlare di Orlando, deve finire. Quel che è troppo è troppo. Ora, come atleti, è nostro dovere sfidarci gli uni con gli altri per fare ancora di più di quanto già facciamo nelle nostre comunità. E i dialoghi non possono fermarsi solo perché le nostre agende si fanno più fitte. Non sarà sempre conveniente. Non lo sarà. Non sarà sempre comodo, ma è necessario.
JAMES: tutti ci sentiamo impotenti e frustrati dalla violenza. Ma questo non è accettabile. È tempo di guardarci allo specchio e chiederci cosa stiamo facendo per creare un cambiamento. Non si tratta di essere un modello. Non si tratta della nostra responsabilità nella tradizione dell’attivismo. So che stasera stiamo onorando Muhammad Ali. Il migliore di tutti i tempi. Ma per rendere giustizia alla sua eredità, usiamo questo momento come una chiamata all’azione per tutti gli atleti professionisti per educarci. È per questi problemi. Parliamo. Usiamo la nostra influenza. E rinunciamo alla violenza. E, cosa più importante, torniamo alle nostre comunità, investiamo il nostro tempo, le nostre risorse, aiutiamole a ricostruirle, a rafforzarle, a cambiarle. Tutti dobbiamo fare meglio. Grazie.
Ancora una volta: non c’entrava nulla Trump, non ancora in carica, e non c’entrava direttamente la politica. Insisto su questo argomento perché è lì che la disinformazione cerca di spostare il tiro, su Trump. “Perchè si sono svegliati proprio ora?”. Non è vero, non si sono svegliati ora. “Perchè ce l’hanno con Trump che è stato democraticamente eletto?”. No, non ce l’hanno con Trump, ma con le discriminazioni razziali e la brutalità della polizia. Per le quali, semmai, Trump non ha preso posizione. “Se ne accorgono solo ora che c’è Trump?”. No.
C’è invece una domanda interessante: perchè la protesta originaria di Kaepernick ebbe meno risalto di quella attuale? Perchè i giocatori NFL (e non solo) ora, all’improvviso compatti e agguerriti, hanno ripreso quella protesta e l’hanno elevata ancora di più? Perchè ci sono squadre NFL e di basket (le Los Angeles Sparks, finaliste del campionato WNBA) che addirittura rimangono negli spogliatoi durante l’inno?
Guardate questa immagine. E’ il momento dell’inno prima di Seattle Seahawks contro Tennessee Titans. Le squadre sono negli spogliatoi, la maggioranza del pubblico bianco è in piedi, l’arbitro afroamericano ha le mani dietro la schiena invece che al petto e la cantante (bianca), che potete intravedere nel maxi-schermo, alla fine della canzone si inginocchierà.
Come si è arrivati a questo, dopo i casi comunque sporadici del 2016 e dell’inizio del 2017? Ecco, ora entra in campo Trump. Ce li ha spinti lui.
Per prima cosa, come detto, ritirando l’invito ai Golden State Warriors che in forma di protesta avevano deciso di boicottare l’evento e provocando le reazioni della NBA che ha espresso perplessità circa le critiche alla libertà di espressione che andrebbe sempre e comunque riconosciuta (ricordate le parole di Barak Obama).
Ma, soprattutto, venerdì scorso (22 settembre), durante un congresso ad Huntsville, nell’esaltare lo spirito patriottico del candidato Repubblicano per l’Alabama in vista delle imminenti primarie, ha attaccato i giocatori NFL che protestavano durante l’inno.
“Non sareste contenti se uno dei proprietari della NFL, quando qualcuno non rispetta la nostra bandiera, dicesse loro: ‘Cacciate dal campo quel figlio di puttana, fuori. Sei licenziato, sei licenziato!’ ?”
La situazione, potete immaginarlo, da questo momento è definitivamente degenerata. C’era un solo modo per rendere così popolare una protesta che comunque già c’era, non era diffusissima (4-5 giocatori su 50 a squadra), per la quale Kaepernick aveva pagato con la carriera non venendo più scelto da alcuna squadra NFL e, soprattutto, era stata tenuta a bada fino a quel momento concedendo di fatto la libertà di espressione e lasciando che a giudicare fossero i cittadini americani stessi: insultare e chiedere il licenziamento di chi protestava esercitando un proprio diritto costituzionalmente riconosciuto.
Ma Trump non si è “limitato” (!) a questo: ha infatti detto anche di essere amico di diversi proprietari NFL (traduco io per voi: otto proprietari hanno contribuito con 7 milioni di dollari alla sua campagna elettorale) e che, se trovassero il coraggio di cacciare i protestanti, diventerebbero le persone più famose negli Stati Uniti. Altro errore da non commettere: dire a gente bilionaria cosa fare.
Il risultato è che la NFL ha preso posizione con un comunicato ufficiale durissimo contro Trump, Trump ha twittato (!) contro il commissario della NFL dicendogli (quasi ordinandogli) di dire ai giocatori di alzarsi durante l’inno (!). L’associazione dei giocatori ha risposto dicendo che nessuno può essere obbligato a farlo e che ci sono dei limiti che non vanno superati. Trump è tornato a twittare dicendo che la NFL è un’associazione piena di regole e che dovrebbe aggiungere quella di alzarsi durante l’inno (!), e ha completamente cannato l’interpretazione del gesto dell’abbracciarsi durante l’inno da parte di alcune squadre, che non era un gesto contro i protestanti, ma al contrario una forma stessa di protesta in cui ci si mostrava uniti, tutti, bianchi e neri.
Trump ha continuato a twittare senza sosta (e ad ignorare il fatto che sia contro la legge chiedere il licenziamento di qualcuno), diverse star della NBA hanno preso posizione a favore dei Golden State Warriors e dei giocatori NFL (cito tra gli altri Michael Jordan, LeBron James, Kobe Bryant, Magic Johnson), ma il risultato più clamoroso è stato probabilmente vedere persino Jerry Jones, storico proprietario dei Dallas Cowboys (la squadra più popolare d’America, the America’s Team) e finanziatore di Trump, inginocchiarsi (prima dell’inno) insieme a tutta la squadra prendendo parte in prima persona alla protesta e mostrando al tempo stesso unità (braccia legate) durante l’inno.
Disse una volta John F. Kennedy: “Quelli che rendono impossibili le rivoluzioni pacifiche, renderanno le rivoluzioni violente inevitabili”. Nel caso di Donald Trump, l’aver condannato così duramente, tra insulti e minacce, chi effettuava una protesta comunque pacifica, ha ottenuto l’effetto di renderla ancora più forte. Al tempo stesso, però, questa protesta ha creato alla NFL un enorme danno con un calo importantissimo dei ratings televisivi, con diversi personaggi pubblici che hanno preso posizione contro la protesta e con tifosi che hanno boicottato la propria squadra del cuore perchè disgustati dalla mancanza di rispetto verso la bandiera americana.
Ne è uscita fuori un’America spaccata, divisa, dove le discriminazioni razziali e anche solo i problemi legati ad un processo ancora in corso di integrazione, sono emersi in tutta la loro potenza e platealità. La strada verso una pacifica convivenza e verso il rispetto reciproco è ancora lunga.