Ieri ho dato un’occhiata alle carte relative al “caso Mauri” (così ribattezzato dai media, nonostante gli altri 7 tesserati e le 3 società di appartenenza a processo) e letto il dispositivo della sentenza con la quale la Commissione Disciplinare ha derubricato le incolpazioni del laziale, ovvero il doppio illecito (gara alterata e scommesse effettuate) di Lazio-Genoa e l’illecito di Lazio-Lecce in omessa denuncia nel primo caso, mentre c’è stato il proscioglimento nel secondo.Non è mia intenzione, con questo articolo, fare il giudice dei giudici e sentenziare a mia volta su quanto accaduto: c’è una Commissione giudicante, ci sono degli avvocati lautamente pagati e, a ulteriore garanzia per Mauri, dietro di lui c’è il “bomber” Lotito, uno che non gliene va male una. E poi sono garantista, ovvero, in assenza di prove certe, preferisco un proscioglimento col sospetto ad una condanna col dubbio. Almeno in linea generale.
Stamattina, ad ogni modo, la Gazzetta dello Sport ha pubblicato un’interessante intervista dei soliti Galdi e Ceniti al Pm di Cremona Di Martino, titolare dell’inchiesta sul calcioscommesse, che merita qualche seria considerazione. Sono tanti i concetti sollevati, quindi andiamo con ordine.
Il primo, più volte energicamente ribadito: per lui, Stefano Mauri l’illecito l’ha certamente compiuto. Ne è convintissimo. Direte voi: è normale, è il Pm, l’accusa. Vero. Ma ci sono degli elementi che effettivamente vanno presi in considerazione
Ad esempio, c’è un passaggio dove dice: «Del resto un giudice, vero, mi ha dato già ragione». Si riferisce evidentemente al GIP Salvini e al provvedimento col quale la procura ottenne gli arresti prima in carcere e poi ai domiciliari del laziale (ma anche di Milanetto, completamente prosciolto: se vogliamo, ancora più clamoroso da questo punto di vista). La giustizia sportiva, perciò, nonostante la natura inquisitoria e il fatto – ribadito – come un forte sospetto basti, alle volte, non essendo necessaria la “prova” in senso stretto, ha ritenuto non vi fossero sufficienti indizi probatori nonostante un GIP rispettabilissimo come Salvini l’abbia pensata in maniera diversa. Certo, direte voi: il GIP non emette sentenze. Verissimo. Certo, potreste ribattere: non è detto Salvini e Di Martino ci abbiano visto giusto. E, ovviamente, il carcere preventivo non è una condanna, ma è uno strumento (spesso abusato) che si usa nella fase delle indagini, prima ancora di giungere a processo. Tutto vero, però un’idea, evidentemente, Salvini se l’è fatta. E pare non coincidere con le conclusioni della Commissione. Può succedere, ma Di Martino non l’ha presa benissimo e, c’è da immaginarselo, nemmeno Salvini. Ce ne faremo una ragione.
Punto due: c’è un altro passaggio che fa riflettere e che deve per forza di cose riaprire la discussione sui “tempi” della giustizia sportiva (e, se vogliamo, di quella penale, come ricorda Palombo, sempre sulla Gazzetta). «In questi mesi abbiamo acquisito altri elementi che hanno aggravato la sua posizione, ma per ovvi motivi non ho potuto fornirli a Palazzi».
Ovvero, e si riferisce a Mauri, ci sarebbero elementi nuovi emersi che peggiorerebbero ulteriormente la sua posizione rispetto alle carte in possesso dalla giustizia sportiva. Elementi che Di Martino dice di possedere ma di non aver trasmesso (intendiamoci: è sua legittima facoltà) a Palazzi. Il motivo? Presto detto: l’intero processo sportivo si è basato e a questo punto si baserà solo e soltanto, come accaduto in verità a tutti gli altri, su un’indagine penale ancora in corso (apro parentesi: è esattamente quando accaduto per Calciopoli, semmai ci torniamo dopo). Questo vuol dire che c’è ancora spazio per nuove indagini, nuove scoperte, nuovi retroscena. E che, non essendo ancora finiti a processo, manca anche completamente una controindagine difensiva che magari smonti alcune delle teorie accusatorie, direbbero i difensori del laziale.
Vere entrambe le cose. Resta il fatto che fornire giudizi oggi, con carte incomplete e possibili fatti importanti ancora ignoti (a Palazzi), porta inevitabilmente al pericolo concreto di sentenziare su un qualcosa di ancora non definito, su un teorema non ancora completato, su un puzzle cui l’accusa sta ancora cercando di far combaciare tutti i tasselli e che la difesa deve ancora iniziare a smontare. Insomma fra qualche mese può uscire fuori la “prova” (semplicizzo, ma è per capirci) che magari, mi auguro di no per il ragazzo, porterà ad una condanna penale nei suoi confronti. Mentre, la giustizia sportiva, non avendola mai avuta a disposizione, lo assolverà. Un pasticcio.
L’esempio più lampante, direi scolastico, di un pericolo simile (e di un pasticcio, grosso, realizzato davvero) ce l’abbiamo avuto con Calciopoli: se il procedimento sportivo, invece che nel 2006 si fosse svolto qualche anno dopo, quando il processo penale è entrato nel vivo e sono emerse un sacco di novità rispetto alle carte di allora, probabilmente i risultati sarebbero stati differenti. Basti ricordare che ad esempio tutta la parte sulle sim svizzere non è rientrata nel giudizio che ha spedito la Juventus in Serie B, così come tutto il lavoro del pool dei difensori di Moggi & Co. incluse le “telefonate irrilevanti” che hanno portato a diverse assoluzioni e a scoperchiare il vaso di pandora su una serie di comportamenti effettuati da chi invece, inizialmente, pareva una vittima inerme (e addirittura meritevole di Scudetto a tavolino) e che poi si è salvato da un processo sportivo solo grazie all’avvenuta prescrizione.
Direte voi: ma la giustizia sportiva deve intervenire per forza subito, non può aspettare i tempi della giustizia penale. Ok, ma ha senso giudicare un’indagine incompleta e su quello basarsi per la fretta di fare i calendari? Meglio un giudizio probabilmente sbagliato fatto in fretta in furia o uno più giusto, ma con effetti non immediati anche a costo di essere meno severi? E’ esattamente la riflessione che si pone Di Martino: «Mi sono accorto di una cosa che in un primo momento avevo sottovalutato: giustizia sportiva e giustizia ordinaria, così convivono a fatica. Prendete i tempi delle sentenze. Che senso ha che la giustizia sportiva si esprima prima di quella ordinaria? Faccio una domanda non causale: e se domani Mauri fosse condannato da un tribunale della Repubblica che facciamo? Ha senso? E’ intelligente?».
Terzo punto: ok, facciamo caso che la giustizia sportiva debba per forza agire in tempi strettissimi (anche se in verità Palazzi con Mauri non è che sia stato velocissimo…) e che questa è la situazione e non la si possa o voglia modificare. C’è un altro punto sollevato da Di Martino, che merita un approfondimento. Dice il pm di Cremona: «Non capisco l’evoluzione dei giudizi. Quando è toccato ai primi, mi riferisco a Doni e compagnia, i processi erano fatti in maniera molto semplice. Si prendevano le carte, si ascoltavano gli interessati e si decideva. Giusto o sbagliato che fosse. Gli ultimi invece si sono trasformati in processi che sono andati oltre le indagini penali. Nel caso di Mauri sono state sentite molte persone, anche Zamperini e Aureli. Gente che ovviamente difendendo Mauri difendeva se stessa. Osservo che a me non è stata data la possibilità di parlare con Zamperini. Ho chiesto al suo avvocato di poterlo fare: mi ha detto che non aveva più rapporti col suo assistito. E invece va alla giustizia sportiva, racconta che Ilievski resta fuori da Formello mentre lui prende i biglietti… Perché non viene da me a raccontarla questa storiella? Come Aureli: mi ha fatto cercare dal suo avvocato perché vuole collaborare. Lo sto ancora aspettando…».
Insomma: la giustizia sportiva 2.0, quella che si è riscoperta all’improvviso garantista, non si limita più, come spiegato da Di Martino, a basarsi sulle informative e sugli interrogatori trasmessi dalla procura (di Cremona), ma va oltre, indaga, riesce pure a sentire testimoni che dal Pm non vanno, evidentemente perché lì dire bugie è reato (penale) e vengono sentiti non solo i tesserati, ma anche gente che non fa parte del mondo sportivo (Aureli ad esempio è il titolare dell’agenzia di scommesse amico di Zamperini e Mauri, non certamente uno sportivo).
Oltre ad essere un processo basato sulle carte di un’indagine in corso, insomma, ci si sta sempre più spostando (sempre nella versione 2.0) verso un processo vero e proprio, parallelo, autonomo, completamente indipendente e nel quale si può giungere a conclusioni di merito completamente opposte rispetto alla giustizia ordinaria, con proprie indagini, propri interrogatori, propri teoremi (che magari verranno poi sconfessati in sede penale).
Legittimo, per carità. “Sono indipendenti”. Ma il rischio finale è che la giustizia sportiva si trasformi in un qualcosa di diverso e addirittura in contrasto dalla giustizia ordinaria, rendendo più confusionario che mai lo scenario. Per la stessa incolpazione, in un mondo ideale, ci dovrebbe essere una verità: innocente o colpevole. Far convivere due verità opposte, assieme, solo perchè la giustizia sportiva deve agire in fretta e perchè può essere autonoma rispetto a quella ordinaria, pare una follia senza senso. Se la giustizia sportiva, come pareva essere quella 1.0, è uno strumento per prevenire illeciti e che quindi punisce anche solo un provato sospetto perchè tanto non si muore se non si gioca a pallone ed è meglio quello che assistere a partite o campionati truccati, allora – a fatica – lo si può accettare. Molto a fatica (il rischio è che si possa “usare” tale strumento in modo “politico” e, diciamocelo, il sospetto ci è già venuto, più volte). Ma se la stessa giustizia sportiva pretende di bypassare quella penale e produrre verità differenti, allora forse è il caso che ci si interroghi seriamente e si fissi alcuni paletti.